Alla scoperta dei casoni della laguna di Marano: che cosa sono, come arrivarci e perché sono unici in tutto l'Adriatico
Una volta scoperti i casoni, non ci sarà più bisogno di andare dall’altra parte del mondo. Ebbene sì, perché basta visitarne uno per compiere un viaggio, in altri tempi, quelli in cui i casoni erano le case dei pescatori, i loro spazi più intimi. Ma quelli di Marano hanno qualcosa che li differenzia da tutti gli altri e che li rende ancora oggi luoghi unici, di un fascino immenso, dove si può accedere solo ad alcune condizioni, come ad esempio non presentarsi mai a mani vuote, dare sempre del tu e dimenticarsi dell’orologio. Insomma, un po’ come tra le pagine di Il vecchio e il mare.
Da Marano e da Lignano bastano pochi minuti (in barca) per ritrovarsi completamente catapultati in altro mondo, totalmente inaspettato: è quello dei casoni della laguna di Marano, vere e proprie palafitte costruite con materiali naturali quali legno di tamerice, paglia e cannucce palustri, che per anni sono stati i punti d’appoggio dei pescatori durante la pesca. «D’autunno, quando c’è la stagione dell’anguilla, o in primavera, quando c’è quella delle orate». La maggior parte di queste strutture, infatti, si trova proprio vicino agli sbocchi sul mare, dove ci sono più pesci. In passato, però, quando le barche erano solo a remi, i pescatori non potevano tornare a casa tutte le sere, per cui si fermavano a dormire lì, di solito dal lunedì al sabato. Così i casoni sono diventati i loro rifugi, i loro spazi più intimi, dove trascorrevano anche molti giorni in solitaria. Qui ogni cosa parla di loro: «Tutto quello che vedi l’ho fatto io con le mie mani, vite per vite», ci racconta Roberto, un casonero. «Un tempo erano molto più piccoli, poi sono stati ampliati. C’era una sola porta, rivolta verso ovest, poiché i venti come la bora vengono da est. Non c’erano pavimenti, ma letti a castello ai bordi e il fuoco si faceva direttamente per terra: era il casone stesso, con la propria forma, a fare da cappa, in modo che il fumo uscisse dall’alto, da una rete». In questo modo le canne rimanevano asciutte e contrastavano anche la forte umidità. Qualcuno veniva direttamente qui a prendere il pesce, ma la maggior parte veniva venduto dai pescatori stessi a Marano con il burcello: «Era una piccola barca trainata a remi e forellata, cioè con dei buchi da cui penetrava l’acqua che permetteva di mantenere il pesce fresco durante il tragitto». Poi le cose sono mutate con l’avvento della barca a motore, che ha cambiato la destinazione d’uso dei casoni: era finalmente possibile tornare a casa e portarsi anche le reti, quindi non era più necessario fermarsi a dormire lì. Ma non per questo potevano essere abbandonati. In realtà, si tratta di un rapporto controverso: molti, soprattutto i più anziani, hanno atteso con ansia l’avvento del motore, perché significava poter tornare a casa, comodità, calore, famiglia. «La vita dei casoneri non era mica facile: c’era umidità, spesso si mangiava solo polenta per giorni e giorni». Per questo si era diffusa anche la pellagra, così come altre malattie, tant’è che, studiando le loro condizioni di miseria, alcuni ricercatori si chiesero: ma come fanno a essere ancora vivi i pescatori maranesi? Eppure, questo non ha impedito che i casoneri si legassero a questi luoghi in modo profondo, sanguigno, ben più affettivo. Spesso sono stati poi i figli a ristrutturarli, non lasciandoli all’incuria e all’abbandono, consci sì della repulsione paterna, ma anche dell’esistenza di un legame indissolubile, forse perché trasmesso proprio via sangue. Non a caso, infatti, fin dalla loro esistenza i casoni si tramandano di padre in figlio.
I casoni sono presenti in tutte le zone lagunari del nord Adriatico per gli stessi motivi, cioè in quanto abitazioni dei pescatori fino agli anni Cinquanta. Dunque, si trovano anche nella vicina Grado, così come a Caorle o Venezia. Ma quello che oggi rende unici quelli di Marano, dove ne sono rimasti poco più di una quarantina, è il fatto di essere demaniali, cioè di proprietà del Comune, sia la struttura in sé che il terreno su cui si trovano. «Per quanto riguarda i casoni maranesi», ci spiega Nico Pavan, proprietario di tre barche, «non c’è nessun pezzo di carta che attesta la proprietà; si basa tutto su accordi verbali, sulla parola». C’è quindi una sorta di tacito assenso all’utilizzo, che non viene messo in discussione prima di tutto dai maranesi stessi, che hanno un profondo rispetto per queste costruzioni, con cui si identificano fortemente in quanto parte della propria storia e cultura. L’unica appartenenza riconosciuta è quella familiare, infatti i casoni, fin da quando esistono, si tramandano di padre in figlio, di solito pescatori o cacciatori. A Grado o a Venezia, invece, sono privati, quindi ognuno ci ha fatto ciò che voleva: nella maggior parte dei casi sono stati adibiti a uso turistico, con ristoranti, alberghi diffusi e altro, anche modificando i materiali originali. A Marano invece assolutamente no: non troverete mai un ristorante o altre attività commerciali in un casone maranese, ma solo ancora spazi intimi, quotidiani, personali: insomma, case. «Altrimenti sai quanti casoni con la Jacuzzi ci sarebbero». Dunque, essendo assente qualsiasi forma di business, «oggi si viene qui per far festa con gli amici o per stare con la famiglia», dice Roberto. Per questo per accedere c’è solo un modo: riuscire a farvi invitare. E meglio se vi presentate con una bottiglia di vino rosso in una mano e una di bianco nell’altra. Una volta giunti all’interno di un casone, non osate dare mai del lei a nessuno e non abbiate fretta, non guardate l’orologio, potrebbero offendersi: godetevi il tempo, che è ciò che caratterizza in primo luogo questi posti. Se invece non siete riusciti a farvi invitare, o non avete la fortuna di avere un amico con il casone, potete rivolgervi a chi ha le barche e può intercedere per voi. Così fanno Stefano e Lilli di Somewheretours che vi porteranno dai loro amici casoneri, come Roberto; o Geremia Navigazione di Adriano Zentilin, che ha fatto il pescatore per anni e organizza gite in barca al suo casone, anche per le scuole. «È una gita molto interessante anche dal punto di vista didattico: facciamo il fuoco, mangiamo insieme e intanto raccontiamo com’era la vita in passato». O, ancora, Nico, che ha tre barche, la Niña, la Pinta e la più grande, il Battello Santa María con cucina a bordo, con cui organizza gite in laguna, con tappa nel suo casone di famiglia, dove ci scappa sempre la spaghettata e (almeno) una bottiglia di vino. Organizza anche battute di pesca o set fotografici degli uccelli in migrazione (pensate che qui sono state avvistate più di 300 specie diverse). «È stato mio padre a voler sistemare il casone di famiglia, per poterci portare noi. Mio nonno, infatti, così come molti altri che ci avevano vissuto, aveva la repulsione. Mi ricordo che quando abbiamo iniziato i lavori di ristrutturazione ci disse: arrangiatevi, fate quello che vi pare, io non voglio saperne niente. Ma poi in realtà ci è sempre venuto a mangiare e bere con noi».
C’è però un prezzo da pagare per questo fascino immenso che ancora conservano i casoni di Marano. Infatti, l’altro lato della medaglia è che queste strutture, che risalgono al 1600, hanno bisogno di una manutenzione continua, tant’è che alcune sono bruciate, altre sono in stato di abbandono. E non avendo alcuna entrata o vantaggio economico, chi investe per sistemare il casone lo fa solo ed esclusivamente a proprie spese, per amore e orgoglio, per la famiglia. E pensate che ci vogliono fra i 5 e 10mila euro all’anno per mantenere un casone in buone condizioni. «Ma a noi andava bene», ci spiega Nico, «finché la regione non ha iniziato a voler regolamentare qualcosa che da secoli è sempre andato avanti in questo modo». E così proprio nell’ultimo periodo, stanno cercando di mettere delle regole a qualcosa che non è mai stato regolarizzato. «Ma i casoni non hanno nulla a che fare con la burocrazia, qui è tutto manuale, sanguigno». Con questi nuovi provvedimenti, non si sa che cosa ne sarà. Quel che è certo, ci dice Adriano, è che i casoni non smetteranno mai di essere dei rifugi, dei punti di appoggio e di soccorso. «Se uno è in difficoltà, avrà sempre il diritto di scendere e far base in un casone. E noi pescatori avremo sempre il dovere di accoglierlo e di soccorrerlo». Anche perché si potrà continuare ad arrivare solo via mare, via laguna. E ricordate, meglio se con una bottiglia di vino in mano.
da La Cucina Italiana del 4 febbraio 2021, articolo di Giulia Ubaldi
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